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venerdì 22 gennaio 2016

Lo scultore ritrovato

Non una grande mostra, ma comunque imperdibile quella dedicata ad Adolfo Wildt alla GAM di Milano. Imperdibile perchè Wildt è un grande della scultura italiana, condannato alla damnatio memoriae a causa della sua entusiastica adesione al fascismo. E imperdibile perché in poche sale riesce a ripercorrere le fasi salienti della sua carriera, dagli esordi alle opere dei suoi allievi, fra cui Lucio Fontana

Immagine rubata da reggiani.it


Si viene sedotti dalla forza del chiaroscuro nella sala dominata dal Vir Temporis Acti , dalla grazia estatica delle sculture raffiguranti S. Lucia e S. Francesco, dai meravigliosi (e per me sconosciuti) disegni, dalla dolcezza delle sculture dedicate alla maternità. 
Alla fine la sala meno interessante è proprio quella dei ritratti, quelli per cui Wildt è più conosciuto, ma che convincono meno. 

Volendo, si può continuare ad ammirare le opere dell'artista milanese in giro per la città, con un percorso segnato nel catalogo della mostra e che inizia proprio nei giardini della GAM. Peccato che quando sono uscita dalla mostra, intorno alle 16.30, i giardini chiudevano e addio. 

Compreso nel biglietto (solo 5 euro, da leccarsi i baffi!) anche la visita alla collezione permanente del museo, che comprende il meglio dell'arte italiana dell'Ottocento e inizio Novecento: Medardo Rosso, Tranquillo Cremona e Giovanni Segantini, fra cui Le due madri, che mi commuove sempre. 

Consiglio a tutti di farsi un giro su ArtsLife per alcune belle immagini della mostra e un'intervista alla curatrice.

martedì 20 gennaio 2015

Il rospo e la colomba

Tutte amano Frida. Tanto più amava la vita tanto più questa era bastarda con lei, ha avuto la forza di dipingere la fragilità e la spudoratezza di mostrare il dolore, ha dato voce alla femminilità. Tutte amano Frida.
Forse la mostra non mette in luce tutti gli aspetti della sua arte e della sua personalità, ma è comunque di grande interesse, se non altro perché le opere di Diego Rivera, principe consorte, hanno uguale spazio. Ma, un po' perché Frida è più glamour, un po' perché Rivera dà il meglio di sé nei murales, la Kahlo rimane la regina dell'esposizione. 

Un po' troppo didascaliche forse le sezioni della mostra. I pezzi forti di Kahlo sono nella sala intitolata Amore e morteDiego nei miei pensieri, splendido autoritratto che racchiude tutto quello che ti aspetti da lei: la messicanità, l'escamotage naif, l'amore per Diego, le lacrime e il barocco di una Virgen laica, e L'amoroso abbraccio dell'universo, la terra, io, Diego e il signor Xòlotl, in cui Frida richiama la cosmica protezione su di sé e su coloro che ama. 

Frida Kahlo, Autoritratto con treccia, 1941, olio su masonite, 
Collezione di Jacques & Natasha Gelman,Città del Messico, Messico
Immagine presa da www.fridakahlo.org
Nella sala dedicata al Surrealismo veniamo accolti dal video con i pochi frammenti rimasti di un progetto di Lola Alvarez Bravo in cui Kahlo avrebbe dovuto apparire come attrice. Ci viene mostrata una Frida bellissima, ma il giudizio è quello che ho per tutti i film surrealisti che non siano Un chen andalou: insopportabile.
Il resto della sala presenta alcuni disegni di Kahlo dal sapore surrealista come il bozzetto per il Ritratto di Luther Burbank, i cadaveri squisiti eseguiti con Lucienne Bloch e alcuni autoritratti, fra cui quello con treccia è il più particolare. Nella stessa sala anche disegni di Rivera di verdure e piante antropomorfe e Mandragola, due versioni di una fanciulla bianco-vestita con teschio in grembo.
Non so quanto abbia senso intitolare una sala Surrealismo: disegni molto più surrealisti, come quelli di Frida raffiguranti inquietanti, caotiche case con elementi antropomorfi, fanno bella mostra di sé in altre sale. Forse ha comunque più senso che chiamarne una Solitudine e nature morte, visto che è presente una sola natura morta. La solitudine invece è ben rappresentata da opere di diversi periodi: Autoritratto con cane itzcuintli del 1938 e l'Autoritratto con scimmie del 1943, in entrambi la presenza degli animaletti domestici di Frida, invece che attenuare, accentua quel senso di desolazione che ti spezza il cuore. Toccante l'Autoritratto con il ritratto di Diego sul petto e Maria tra le sopracciglia, la pennellata pastosa con spessi strati di colore per una delle ultime opere di Frida, dipinta sotto l'effetto degli antidolorifici.

Sebbene, come detto, la vera arte di Rivera si manifesti nei grandi murales, la mostra è riuscita a dare un'idea della sua opera in maniera più globale di quanto fatto con la Kahlo.
Sono presenti opere del periodo giovanile con alcuni quadri che vanno dal 1906 al 1919, molti dei quali sono di un cubismo così poco memorabile da essere quasi imbarazzante. C'è speranza per tutti, insomma.
Più interessanti i disegni dei viaggi a Venezia e Ravenna, con tanto di appunti sulla composizione delle opere d'arte che Diego ammirava; bello vedere l'occhio e il cervello del pittore in azione davanti ai maestri del passato.

Diego Rivera, Girasoli, 1943
immagine presa da Pallant House Gallery

La sala 5 è l'apoteosi di Rivera, con bozzetti e bozzettoni per i murales del 1926 circa e bellissimi quadri nei dintorni del '43, come il sottilmente inquietante Girasoli.
Per quanto mi riguarda il quadro più bello è America preispanica, creato per essere la copertina di Canto General di Pablo Neruda, è quasi un mural in piccolo formato, dallo stesso fascino del Mosè della Kahlo (purtroppo non in mostra), che ben rappresenta la bellezza della natura selvaggia e l'eroicità quotidiana dei popoli precolombiani attraverso le madri che lavorano la materia prima, i semi-nudi architetti di Machu Pichu e Chicen Itza e i loro operai, ma anche i terribili sacrifici umani.
Un video grande quando la parete mostra alcuni murales di Diego, da Detroit al Messico passando per San Francisco, tanto per non perdere di mira la monumentalità delle opere finite. Poche musse, questa è roba che va vista dal vero, non solo per gli ovvi motivi, ma perchè tutto intorno a te dovresti avere il Nuovo Mondo, spiace molto non uscire da lì e trovarsi in Messico.

C'è anche una sala dedicata a Rivera ritrattista. Ovvero ricche signore vestite di abiti tradizionali, la pochezza delle quali fa tristezza a decenni di distanza, nonostante la maestria di Diego. I quadri migliori della sala in realtà sono di Kahlo: il ritratto di Diego e quello di Marucha Lavin, contornata da foglie verdi brillanti e farfalle, e le cui decorazioni dell'abito hanno il tipico effetto "pixelato" del punto croce. Adoro queste innocenze di Frida. Interessante il confronto dello stesso soggetto dipinto da entrambi, ovvero i ritratti di Natasha Gelman, splendido quello di lei, meno riuscito quello di lui, con le calle bianche sullo sfondo (tanto per cambiare) e una composizione generale più appropriata a Tamara de Lempicka.

Foto presa da www.improvisedlife.com
Non solo di quadri e disegni si occupa l'esposizione, c'è anche una sala dedicata alle fotografie che ritraggono i Nostri, quasi un album di famiglia. Ma questa è una famiglia di gran classe, perché i fotografi si chiamano Nickolas Muray o Lola e Manuel Alvarez Bravo e l'unico video presente è un filmato muto in cui Trotsky legge qualcosa ad alta voce a Frida e Diego. Forse le foto più interessanti sono quelle fatte da Guillermo Kahlo, il padre di Frida che di mestiere faceva appunto il fotografo; alcune si trovano in tutti i libri, altre sono meno note.
La mostra finisce con una piccola esposizione degli abiti di Kahlo nella meravigliosa Cappella del Doge. Commovente il busto dove Frida aveva dipinto la falce e martello e un feto.
Da mal di denti il video di Yasumasa Morimura, artista che ha dedicato una sua performance alla Kahlo e ai suoi abiti. Filosoficamente ne penso tutto il bene possibile, in pratica ha messo a dura prova la mia infinita pazienza e farò finta che il problema sia solo la mancata comprensione del giapponese.

Menzione d'onore al bookshop, che, ispirandosi al Messico, è il più colorato nella storia dei bookshop. 

giovedì 13 marzo 2014

Renoir a Torino

Un'altra desapariciòn per più di un mese, ma rieccomi. Un po' di roba da raccontare, inizierei dalla mostra su Renoir. Anche se ormai conclusa, l'immagine che ho scelto per il layout mi impone di buttare giù almeno qualche parolina.

Iniziamo dal GAM di Torino: troppo piccolo per un nome di sì tanto appeal come Renoir, sia negli spazi, claustrofobici sin dall'ingresso, sia per il personale, del tutto impreparato a gestire una folla di tali proporzioni. Io capisco che è come trovarsi nella fossa dei leoni, lavorare col pubblico non è mai facile, tantomeno se le direttive che ti danno sono prive di logica; ci sono passata anch'io. Rimane il fatto che io, con la mia bella prenotazione e il mio pancione da settimo mese inoltrato di gravidanza, sono stata cacciata in malo modo a fare la fila, senza se e senza ma. Per fortuna alcuni arditi muniti di prenotazione hanno osato chiedere esplicitamente di passare e allora io, la mia pancia elefantiaca e altri fra quelli arrivati già prenotati ci siamo mossi.
Ballo in città, 1883, olio su tela,
180 × 90 cm, Musée d'Orsay, Parigi.
Immagine presa da wikipedia
Ovviamente sto parlando della piccola fila all'interno del museo, perchè quella fuori era chilometrica e non so dire dove arrivava, spero di cuore che nessuno sia stato mandato in fondo per qualche malinteso con il personale.

Dentro, neanche a dirlo, gli spazi non miglioravano di certo. Purtroppo sono dovuta andare di domenica, col picco di visite che ne consegue. Tutte le mostre dedicate ad artisti così famosi sono difficili da visitare e non di certo ideali per godere della bellezza delle opere in santa pace, ma in questo caso sto proprio parlando di spazio vitale... non sapevo dove mettermi NON per vedere i quadri, ma proprio per esistere! Volevo tirare fuori il mio blocchetto per prendere qualche appunto e non ce l'ho fatta fino alla quarta sala!! Il tutto non era aiutato dal fatto che il museo non ha un guardaroba, ma solo una ventina di armadietti per mettere le borse, l'ultima fila dei quali raggiungibile solo da Michael Jordan e Tiramolla. Insomma, borse e giacche stancamente trasportati da una sala all'altra non agevolavano i movimenti.


E le opere? Su questo proprio nessuna delusione. Provenivano da l'Orsay e l'Orangerie e chi ha visitato i due musei parigini lo sa, questi sono alcuni dei quadri più belli di Renoir. La mostra consisteva in nove sale, divise per ambiti tematici. La prima sala era dedicata alla giovinezza e gli amici ed erano esploste anche opere di Monet e Bazille; la seconda ai ritratti femminili dove spiccavano tre ritratti datati dal 1901 al 1913 la cui vicinanza palesava l'evoluzione dello stile del Maestro; seguivano poi dei magnifici paesaggi, alcuni rari quadri dedicati al viaggio in Algeria, fino ad arrivare alla sala dedicata alla rappresentazione dell'infanzia, dove si iniziavano a vedere i pezzi grossi: Claude Monet vestito da pagliaccio, Maternità (ovvero Aline che allatta il piccolo, cicciosissimo Pierre), Julie Manet con gatto. E finalmente, svoltato l'angolo, ecco che arrivano i pezzi grossissimi, quelli sulla mondanità: l'Altalena e i due grandi quadri dedicati al ballo, di cui però purtroppo il terzo (quello che fa da sfondo a questo blog) è a Boston e non era quindi presente, interrompendo il ritmo di valzer del trittico. Fanciulle al piano e una carrellata di fiori per arrivare là dove interessava a me: l'ultimo periodo, carnale, senile, mediterraneo, quello delle Bagnanti.

Bagnanti, 1918-19, olio su tela, 110 x 160 cm, Musée d'Orsay, Parigi.
Immagine presa dal sito del museo

Come detto, il resoconto è misero, ma la voglia di andarmene a Cagnes-sur-Mer è tanta.

giovedì 13 giugno 2013

L'importanza di essere maudit

Quante mostre su Modigliani avrò visto negli ultimi 20 anni? Più o meno tutte quelle allestite in Italia e zone limitrofe. E davanti a quante opere di artistoni, artistelli e artistoidi della cosiddetta École de Paris mi sono incantata? Un numero tendente ad infinito. Perchè Amedeo Modigliani e tutto il suo entourage  parigino rappresentano il primo amore e il primo amore, che ve lo dico a fare, non si scorda mai. Quindi non potevo esimermi da vedere anche Modigliani, Soutine e gli altri artisti maledetti, nonostante il titolo. Come il più scarno sottotitolo spiega, trattasi di alcune delle opere della collezione Netter, riunita per l'occasione, come usano fare alcuni vecchi gruppi rock.

Sono andata un giovedì pomeriggio, in modo da godermi le sale vuote, avendo la pazienza di lasciar passare i grupponi incuffiati. Ad essere sincera le cuffie a questo giro le avevo anch'io, essendo comprese nel prezzo del mio biglietto (ovvero quello speciale con il viaggio sui potenti mezzi delle Ferrovie Nord). Ho anche provato ad ascoltare alcune spiegazioni, ma ero più attratta dalle onnipresenti gimnopedie e gnosserie di Satie in sottofondo; vada però a loro discolpa che non hanno indugiato solo sulla Gymnopédie 1 (ma c'è, tranquilli che c'è).

La prima sala funge da pout-pourri di quello che ci aspetta nel resto della mostra: un bel ritratto di Netter, dipinto da Moïse Kisling, che doverosamente apre la mostra; un meraviglioso paesaggio urbano di Utrillo; gli immancabili ritratti di Jeanne Hébuterne e Leopold Zborowski, quelli di piccole dimensioni, 46x27 per la precisione, dipinti da Modigliani nel 1916; le Grandi Bagnanti di André Derain, del 1908.
André Derain, Le grandi bagnanti, 1908, Olio su tela, cm 178 x 225, © Pinacothèque de Paris /Fabrice Gousset, © André Derain by SIAE 2013. Foto rubata da http://blog.nh-hotels.it
Quest'ultima è senza dubbio l'opera che attira lo sguardo di chi entra, non solo per il grande formato, ma anche per una certa familiarità che si riconosce nel modo in cui è trattato il soggetto, quasi un trait d'union fra Cezanne e Picasso (anche se non so se ci sia proprio bisogno di un trait d'union fra Cezanne e Picasso). D'altronde non solo l'anno è quello delle Demoiselles, ma non c'era artista all'epoca che non indugiasse nelle perfette forme di Cezanne e le riportasse nelle sue opere.
Quello che invece ha attirato la MIA attenzione è stato il quadro di Utrillo, una pennellata quasi van-goghiana, gli alberi materici con gocce di giallo fra il nero, i palazzi che escono dal quadro, che cadono su se stessi; sembra una vivace domenica pomeriggio, ma è tutto sporco e cattivo.

Un quadro che è un'ottima anteprima della sala dedicata a Maurice Utrillo. Ritorna quella pennellata usata per dipingere gli alberi, ma meno aggressiva, più fluida e morbida, in Paesaggio corso del 1912. Ancora gli alberi che attirano verso l'interno del quadro e una strada che corre verso l'orizzonte, le case con le persiane che vorresti aprire in Piazzetta della chiesa a Montmagny del 1907 circa. Gli  alberi sono invece carichi di foglie multicolori in Chiesa di periferia del 1909, con un vertiginoso stacco fra edifici e cielo (quello che la madre gli invidiava, a sentire la guida) che risucchia dentro al quadro e lì ti inchioda. Per non parlare dello splendido Chiesa di Sermaize (1914/16 circa) - la solita capacità di cataputarti all'interno del dipinto, dentro le case con i soliti alberi, le solite persiane, lo sporco alle pareti, il cielo grigio. È risaputo che Utrillo dipingeva a scopo curativo, per arginare almeno in parte i danni dell'alcolismo. Non so se questo quadro sia stato terapeutico per lui, sicuramente lo è per me!

Quadri pochi ma buoni nella sala dedicata a Suzanne Valadon, in cui spicca Nudo che si pettina del 1916, forse il mio quadro preferito fra tutti quelli esposti alla mostra. Che signora artista, Valadon! Che capacità di dipingere corpi sfatti e attraenti, carni dai colori marci che disegnano rotondità sensuali! Non mi staccavo più da questo quadro che mi ha dato molte emozioni, nascoste in tanta apparente semplicità. 
(Nota di costume: ricordate quanto detto sulle cuffie con le spiegazioni? come inizia la descrizione di questa meraviglia? "La musica di sottofondo è di Erik Satie, che per qualche mese fu amante dell'autrice del quadro." Occhietti della Simo al cielo.)

Si arriva finalmente alla sala con i capolavori di Amedeo Modigliani. A sorpresa è stata la parte che mi ha interessato meno, forse per l'overdose di mostre di cui parlavo all'inizio. Ma impossibile non rimanere comunque incantati dal ritratto di Jeanne Hébuterne del 1918 (quello di profilo, lei è vestita in nero e rosso) o il ritratto di Elvira con colletto bianco.
In un angolino che pochi degnano di uno sguardo sta anche un Adamo ed Eva (1919) di Jeanne Hébuterne, che non avevo mai visto e di cui nemmeno sapevo l'esistenza (ma sempre vengo a conoscenza dei suoi quadri solo alle mostre, è la natura del suo patrimonio artistico...). Non di certo un capolavoro, simil-naïf come si confa alle opere di questa artista, chi si ferma davanti non può fare a meno di sentirsi incuriosito dalla macchia di colore che Eva tiene fra le mani. Non capita spesso che la mela sia così sottilmente ipnotizzante... ma dovrebbe!

Chaïm Soutine, La pazza, 1919 circa, olio su tela, 
Immagine proveniente da
http://www.artexpertswebsite.com/pages/artists/soutine.php

La sala dedicata a Chaïm Soutine si fa negativamente notare perchè non si vede NULLA a causa del riflesso delle luci sui quadri. La forzata visione da lontano ha il suo fascino, però. Il ritratto di Chaïm dipinto da Modì (quello del 1916) campeggiava solitario sul lato corto della stanza, come un re a capotavola. Ho adorato Bimba con vestito rosso, del 1938, che potrebbe essere un adorabile, distorto pendant della Bambina con vestito azzurro di Modigliani (presente in mostra). Sono stata morbosamente attratta dalle enormi mani de La pazza (1919 circa), dall'espressionistica deformazione de La donna in verde (sempre del 1919 circa). Mi accorgo solo ora, scrivendo, che hanno attirato di più la mia attenzione i ritratti che i paesaggi. Forse dipende dal fatto che avevo già visto in altre mostre i suoi buoi, sentieri e platani o forse, più probabilmente, non c'è paesaggio al mondo, nemmeno dipinto dai più grandi, che io possa preferire ad un ritratto.

    Infine la sala dedicata a Moïse Kisling, dove spiccano La donna con maglione rosso del 1917, la cui modella un po' assomiglia a Jeanne Hébuterne, e il Nudo sdraiato sul divano del 1919, soggetto modiglianesco, resa sensualissima, con la modella di sbieco a far da spartiacque fra i colori freddi del panno in cui sta sdraiata e la tenda rossa che sopra lei sovrasta.

    venerdì 18 maggio 2012

    Il paesaggio veneto

    Come al solito mi riduco nell'ultima settimana disponibile, ma finalmente sono andata a vedere Tiziano e la nascita del paesaggio moderno a Palazzo Reale! Sembra una mostra fatta apposta per me e la mia passione per il Rinascimento veneto, prova ne sia che io sono stata fra le sale dell'esibizione circa due ore, mentre quelle poche persone che l'hanno visitata nello stesso periodo di tempo se la saranno cavata in poco più di mezz'ora. Ma come si fa a staccarsi da capolavori come La prova del fuoco di Mosè di Giorgione (che è quello qui a sinistra, preso da www.museogiorgione.it)? Ogni particolare è un mondo da scoprire!
    Percorso, cartellini, spiegazioni sono tutti incentrati sul concetto di paesaggio per i pittori veneti fra la fine del secolo V e il secolo VI. La prima sala accoglie il visitatore con la splendida Crocifissione nel paesaggio di Giovanni Bellini seguita dal Giorgione già ricordato e dalla Sacra conversazione di Tiziano, opera giovanile del cadorino. E devo ammettere che ho apprezzato che i mostri sacri stessero tutti all'inizio, così da cominciare la visita con summo gaudio e dedicarmi alle caccia ai tesori delle altre sale con più allegria (tesori che comprendono Tobiolo e l'angelo della stesso Tiziano o Ninfa in un paesaggio di Palma il Vecchio, fra gli altri). L'esibizione poi finisce in bellezza: oltre all'immancabile (ma sempre apprezzato) pecorume e pastorume vario di Jacopo da Bassano, Rebecca al pozzo di Paolo Veronese e il Narciso di Tintoretto sono un dessert niente male.

    In una saletta a parte, il FAI, che patrocina l'esibizione, ci fa riflettere su quanto paesaggio in Italia è andato perduto grazie alle illuminanti parole di Pier Paolo Pasolini in un documentario del 1974 per la Rai.

    Nemo propheta in patria...